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Fare business con l'arte del restauro

di Paolo Bricco

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1 dicembre 2009
Vito Barozzi (Rocco De Benedictis)

Vito Barozzi è andato a lavorare in un cantiere edile a dieci anni. «Non era poi male - racconta - in fondo mio padre Domenico, a quella età, era stato uno degli ultimi pastorelli della Murgia, ceduti dalle famiglie poverissime agli allevatori di pecore in cambio del semplice sostentamento. Tornava a casa due volte all'anno».

A sentirlo parlare di mattoni e di calce nella sua Altamura, centro storico ancora intatto e pane buono su tutte le tavole, avverti lo stesso piacere fisico che esprime, indistintamente, chiunque faccia il secondo mestiere più antico del mondo: non importa che sia un muratore di provincia che quando piove non lavora e dunque non guadagna oppure un grande costruttore, tipo Salvatore Ligresti, accomodatosi nel salotto buono del capitalismo italiano.

Dietro all'Italia com'è, non come dovrebbe essere, ci sono soprattutto loro. Secondo l'Osservatorio nazionale sul consumo del suolo, costituito dall'Istituto nazionale di urbanistica, da Legambiente e dal Politecnico di Milano, l'8,5% del territorio è coperto da case, edifici pubblici, strade e infrastrutture. Nel 1950, un minuto primo di quel miracolo economico che avrebbe cambiato il volto, il corpo e l'anima dell'Italia, era meno di un terzo di oggi. Le cose stanno così, al di là di ogni realismo sviluppista, che giudica l'erosione del territorio un dazio da pagare in cambio della crescita economica, o di ogni invettiva letterario-antropologica di tono pasoliniano o alla Calvino. Attualmente il paesaggio italiano è segnato da 905mila imprese, che danno lavoro a 2 milioni di persone e producono una quota di Pil stimabile al 6 per cento. Con, naturalmente, delle brutte sbrecciature: secondo lo Svimez, nell'edilizia ci sarebbero 180mila lavoratori in nero. Centodiecimila al Sud.

In una realtà complessa, con grandi gruppi attorniati da una miriade di piccoli (secondo Unioncamere, il 61% sono ditte individuali), Vito Barozzi si è costruito uno spazio particolare: il restauro. «Di fatto, quasi senza saperlo - riflette lui che oggi ha 53 anni - ho recuperato la tradizione dei muratori pugliesi, abili a lavorare con le pietre e il tufo e a intervenire su un'architettura basata sulla volta». Un patrimonio secolare, che anche qui rischiava di essere infiltrato, sgretolato e polverizzato dall'egemonia del calcestruzzo, il cemento armato che dagli anni 60 ha modificato radicalmente il modo di costruire, nel Sud e in tutta Italia. Fra i lavori in corso, ci sono il Teatro San Carlo di Napoli, Palazzo Barberini a Roma, il Museo Archeologico di Reggio Calabria, la cattedrale di Gravina, il castello svevo di Trani e il Tempio di Ercole Vincitore di Tivoli, uno dei luoghi più strani del nostro paese, dove sui colonnati e sul teatro romano s'innestano, con una combinazione vagamente futurista, le travi d'acciaio, le fonderie e le cartiere che formavano nel 700 l'industria del Papato.

La sua Cobar fattura una sessantina di milioni e dà lavoro a 230 persone: 190 muratori e 40 tecnici-restauratori. L'80% dei ricavi è garantito dai restauri, il resto dalla normale edilizia civile. La metà del fatturato nei restauri è realizzato con il ministero dei Beni culturali, il 35% con gli enti locali, il 10% con le diocesi e il 5% con i privati. «Siamo fortunati - dice Barozzi -: il ministero paga entro 60-90 giorni, le diocesi ci commissionano un lavoro soltanto se hanno già i soldi. I ritardi riguardano i comuni, le province e le regioni». La tenuta finanziaria di questa società, diventata una Spa negli ultimi mesi, non è messa a rischio. Anche perché, fra capitale sociale e riserve, dispone di un patrimonio netto di 5 milioni, mentre i debiti bancari sono praticamente nulli.

In una crisi che ha messo a nudo la sottopatrimonializzazione del nostro capitalismo, non si registra soltanto la scelta di politica economica di costituire un fondo da tre miliardi collegato a una Sgr, con cui ricapitalizzare le imprese il cui fatturato annuo sia compreso fra i 10 e i 100 milioni. Compare gradualmente anche un elemento di psicologia individuale, che sta conferendo un'inedita fisionomia al nuovo paradigma del piccolo e del medio imprenditore: la consapevolezza che, quando le cose vanno bene, occorre lasciare gli utili in azienda, anche a costo di un tenore di vita personale meno scintillante. «Dopo quarant'anni di lavoro - spiega a questo proposito Barozzi - posso contare su 80 metri quadrati a Metaponto, vicino alla spiaggia. Anche se non critico chi, fra i miei colleghi, si compra la barca o la Porsche». Due altri elementi preservano l'assetto patrimoniale della Cobar: uno nascosto, l'altro più visibile. «Sa com'è - dice Barozzi - nel campo dei restauri, non riceviamo le classiche richieste strane. Tangenti e cose simili». Inoltre, in questo mercato non esiste traccia del massimo ribasso, il meccanismo che invece nelle opere pubbliche spesso genera fallimenti che si trasmettono all'intera catena del subappalto.

  CONTINUA ...»

1 dicembre 2009
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